1913 FLANO DEL CADORE

Una ricetta che mi catapulta direttamente alle mie origini, ecco cos’è sto flano cadorino. (efx.:rumore sordo di tonfo) Non sono del 1913, non fate le spiritose… Sono nata (nel 1970) nel paesello che diede i natali anche al grande Tiziano, Pieve di Cadore, che dista circa mezz’ora di macchina verso nord da Castellavazzo, adorato paesino di scalpellini dove ho vissuto i miei primi 8 anni. Provincia di Belluno, in Veneto.

FLANO COPERTINA                                             photo:ElenaVilla@PotLuck

 

Ho bazzicato il Cadore in lungo e in largo, fin dalla più tenera età: locali, ristoranti, rifugi, paesi e sagre, malghe e crepacci con amiche, fidanzati, compagnie teatrali o da sola. D’estate e d’inverno. Aria fine e naso all’insù fino ad Auronzo, Borca, San Vito, Cibiana, Cortina, fermandomi ad ammirare paesaggi incredibili o a divorare qualcosa di buono (come dimenticare i goduriosi panini dello Snack al Chèck di Tai, negli anni ’80 era una tappa obbligata). Una terra ad alta densità di meraviglie e bontà, il Cadore, con la sua gente, dolomitica come la roccia e cruda solo all’apparenza. Qui intorno ci sono le crode più belle del mondo, le Dolomiti (Bellunesi). Patrimonio dell’umanità, hanno visto all’opera scalatori arditi, scrittori ispirati e orde di turisti in coda. Hanno sopportato le atrocità della Grande Guerra, arrivata pochi anni dopo la pubblicazione del nostro Flano. Quando il Regno d’Italia dichiarò guerra all’Austria Ungheria, nel 1915, buona parte del territorio cadorino era ancora sotto l’Impero asburgico e, va da sé, divenne luogo di aspre e lunghe battaglie, combattute fin sulle cime più alte, tra trincee, strapiombi e un freddo cane. A tal proposito, se volete approfondire, date un’occhiata a questi siti: il Museo della Guerra di Cortina, l’Eco museo della grande guerra e il Museo della Guerra in Marmolada. E anche questo interessante itinerarigrandeguerra.it. Da visitare, non solo virtualmente.

 Tofane e WW1

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  OCCHIO PER GLI AFFARI.

Di sola bellezza non si vive, ed è così che verso la fine dell’800 (1878), al passo con il processo di industrializzazione del nostro Paese, nasce a Calalzo la prima fabbrica di occhiali, come spiega nel dettaglio il sito del Museo dell’occhiale di Pieve. Da quella fabbrichètta imbastita in un vecchio mulino da grano da Angelo Frescura (già venditore ambulante di occhiali provenienti dalla Francia) con il fratello Leone e Giovanni Lozza, partì la gloriosa storia dell’occhialeria cadorina, che nutre da generazioni le famiglie della nostre vallate. Nel 1901, dopo la morte di Frescura e qualche passaggio di proprietà, l’azienda fu rilevata da Ulisse Cargnel che riuscì ad incrementare gli affari, arrivando nel 1906 ad impiegare 200 operai per una produzione giornaliera di 2000 occhiali e 4000 lenti, esportati anche in America latina. L’avvio, nel 1910, dell’innovativo reparto per la produzione degli occhiali in celluloide, materiale plastico brevettato negli Stati Uniti nel 1873, fece fare il botto al buon Cargnel. Poi arrivò la Grande guerra che qui, come detto, lasciò decisamente il segno. Nel 1917, lo stabilimento fu occupato dalle truppe austro-ungariche che si portarono via anche i macchinari. Finita la guerra, Cargnel riavviò faticosamente la produzione, ma il mancato risarcimento dei danni da parte del governo portò al tracollo la società, che chiuse i battenti nel 1932. Due anni dopo, nel 1934, dalle sue ceneri nacque la Società Anonima Fabbrica Italiana Lavorazione Occhiali, ovvero la S.A.F.I.L.O, di Guglielmo Tabacci, ancora oggi una delle aziende più importanti del settore (sebbene negli ultimi anni ci siano state non poche gatte da pelare).

In alto, la fabbrica Cargnel, modello occhiali inizio XX secolo. In basso, modello da vista del 1920, foto delle maestranze della Lozza nel 1930 da Nuovocadore.it. Le foto degli occhiali arrivano dal Museo dell’occhiale.

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LA REGINA DELLE DOLOMITI E LA BELLE EPOQUE

Ma torniamo al nostro flano. Ingredienti piuttosto ordinari per un dolce (uova, farina, zucchero, latte) e una spiegazione sommaria e imprecisa… Chissà chi l’ha scritta, sta ricetta, magari qualche facoltoso socio del Circolo Gastronomico milanese (gli editori della Rivista italiana di arte culinaria da cui è tratta la ricetta) durante un buen retiro ampezzano, un gourmet oriundo cadorino o, ancora, il cuoco di qualche lussuoso albergo ampezzano. Chi lo sa?! Di sicuro c’è che già allora questi luoghi, in particolare Cortina, erano frequentati dall’alta società, dal bel mondo. Come si può leggere nel sito dello spettacolare Palace Hotel Cristallo (inaugurato nel 1901, in stile art nouveau, vista sulle Tofane), alla fine dell’800, Cortina entrò a far parte del circuito del Grand tour, un viaggio a tappe destinato ai giovani rampolli dell’aristocrazia europea per imparare a vivere (bene). Un rito di passaggio, uno svezzamento di lusso. Qui trovavano alberghi lussuosi, boschi e prede per perfezionare l’arte della caccia e cime da violare. Immagino che fosse la meta prediletta anche per parecchi cuochi in cerca di lauti guadagni. Nel 1913 arrivò anche il treno, almeno fino a Perarolo di C., a facilitare il via vai di turisti e commerci.

in alto a sinistra, la ricetta originale, Cortina primi anni del ‘900, la Rivista IDAC, Palace Hotel Cristallo

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IL FLANO DEL CADORE E LA TORTA DE JUšA

Fatto sta che da queste parti, mi dicono, esiste effettivamente un dolce piuttosto simile al nostro flano. Incuriosita, ho interpellato Fabio Pompanin del ristorante Al Camin di Cortina e anche Andrea Fiori della Pasticceria Fiori di San Vito di Cadore che mi hanno raccontato della tradizionale “torta de juša”. La “ juša” o “juscia” altro non è che il colostro, il latte giallastro prodotto, in questo caso, dalla mucca subito dopo il parto del vitellino, ricchissimo di carboidrati, proteine e anticorpi. Tradizionalmente preparata negli alpeggi, in estate, quando la varietà del cibo consumato si limitava a poche pietanze. Una fettina di torta sarà stata una variante molto, molto gradita. Questo Flano del Cadore potrebbe quindi essere un surrogato cittadino di un dolce da malgari dolomitici, rivisitato secondo le esigenze, addolcito da qualche goccia di acqua di fiori d’arancio e uvetta. Non è difficile da realizzare, basta unire tutti gli ingredienti (forse sarebbe il caso di aggiungere un po’ di panna, il latte d’allora sarà stato di sicuro più grasso), imburrare e riempire una tortiera, infornare a 180° per il tempo necessario (circa 50 minuti) ed è fatta. Gommosetta, ha un gusto semplice e buono, ideale per i bambini.  Ad esser sincera, ho aggiunto un po’ di zucchero, 10 gr. mi sembravano pochini. Ma si sa, lo zucchero, a quei tempi, non era roba da alpeggio e dopotutto il colostro è già di suo dolce e appiccicaticcio. Anche una spruzzatina di “sgnappa da troi” (grappa rustica) non guasterebbe, a mio parere. Visto che avevo a disposizione un bel numero di ciliegie, ho fatto una rapidissima composta (500 gr. di ciliegie, 200 gr. di zucchero, poca vaniglia e il succo di un lime) per accompagnare la fettina di flano e per dare colore alle foto. Se viene condivisa con amici o persone care, porta fortuna. Così sembra raccontare la tradizione. Io l’ho preparata per un pic nic con amiche. Anzi, in occasione di un Potluck. per l’esattezza. Ora non mi rimane che trovare del colostro e provare la ricetta originale, la curiosità di saggiarne il gusto è tanta.